nella Notte Bianca tra
FANTOZZI E POTEMKIN
“Ogni volta che in qualche luogo sperduto d’Italia si proietta il film di Eisenstein, mi chiamano a spiegare perché ho detto che … è un cagata pazzesca ( nel film Il secondo tragico Fantozzi, 1976 )”. Lo dirà Paolo Villaggio, nella collaudata gamma enfatica di toni e mimica, puro stile fantozziano, che già con le prime battute si conquista la gremita platea di Jazz muto, al Lungotevere di Castel Sant’Angelo. A modo suo, ovviamente, senza piegarsi al dibattito, ma ripescando nei ricordi di gioventù, anni ’60–’70, Genova, la cineteca, i pomeriggi trascorsi insieme all’amico Fabrizio (De André), mentre altri coetanei rimorchiavano…Tra le fortunate gags del film, quando Fantozzi, il diverso, nell’impossibilità - incapacità di adattarsi, da capopopolo per un giorno, oserà pronunciare il famoso epiteto sulla corazzata (Kotionkim, nel film di Salce!).
“Certo, lo so che è un capolavoro – dice ora- ma visto così…” E irride al rito del doversi conformare per forza ad un potere fatto di paroloni, parole d’ordine e simboli contro cui l’impiegato Fantozzi, l’individualista, l’anarchico, il subalterno soccombente ha impeti di trasgressione. Un filo di ricordi in cui tutto s’aggancia, ieri e oggi, perché il raccontare abbia un senso. Con un disincanto che lascia comunque il sapore amaro, dove la sfiducia sul destino umano è sempre a rischio di cinismo. E contro ogni celebrazione, che sia della rivoluzione russa del 1905 o addirittura dei diritti umani (nella notte bianca del XII municipio), Villaggio opporrà la propria tragicomica maschera… Pur commissionata per una celebrazione, anche La corazzata Potemkin è figlia di un disincanto, puntando a far rivivere lo spirito che animò quegli uomini del 1905. Perché non si spegnesse l’eco di una rivolta che li unì, dando loro il coraggio di non obbedire più, per la dignità e nel nome di una fratellanza fiduciosa verso i propri simili. Non a caso il film del ‘25, fu tollerato nell'URSS di Stalin, vietato dal nazismo e arrivò in Europa solo negli anni ’50. Un film dal linguaggio assolutamente innovativo e geniale, di cui il cinema successivo è ampiamente debitore, ma che i più conoscono solo tramite il divertente, pungente nonché strabordante Fantozzi del 1976. Oggi lo spettatore rischia di non saper più cogliere, oltre all’originalità, il fine di quel montaggio, che fa della ripetizione, dell’insistenza delle scene, delle inquadrature, mai uguali a sé stesse, un mezzo di comprensione e trasmissione di un sentimento collettivo.Tramite una struttura filmica, come un crescendo musicale in cinque tempi, che la raffinata esecuzione di Franco D’Andrea al piano solo ha saputo rafforzare e punteggiare, collocare in un’epoca e in un secolo, nei rimandi alla musica dodecafonica, e colorire di blues.
Silvana Matozza, Guido Bonacci
Articolo e photo pubblicati sulla rivista di cultura e spettacolo Vespertilla, anno V n° 4 - Settembre/Ottobre 2008